Bottega di El Greco: l'Altarolo di Camaldoli

Biblioteca Antica del Sacro Eremo di Camaldoli

Francesco Traversi

Quello che attualmente è riconoscibile sotto l’aspetto di un altarolo con cinque raffigurazioni sacre, contornate da una decorazione a rilievo, in origine si presentava come un manufatto la cui funzione liturgica era fin da subito chiaramente individuabile, avendo l’aspetto di un Tabernacolo a base esagonale con cinque facciate dipinte e l’ultima – ovvero il tergo – non lavorata (o forse addirittura non esistente), essendo il lato che stava addossato ad una superficie piana presso un altare. Dunque solamente delle manomissioni successive hanno conferito l’odierna fisionomia all’oggetto, interventi che sono visibili anche ad occhio nudo osservando attentamente le zone di giuntura fra i pannelli e i colonnini, dove si rilevano delle dorature posticce, in particolar modo nella parte centrale che fungeva da sportellino: qui è stato tamponato il foro della serratura.

L’Altarolo-Tabernacolo, oggi custodito nella biblioteca dell’Eremo, non è stato realizzato per Camaldoli ma vi è arrivato in un secondo momento, probabilmente da Roma. La presenza di San Romualdo nel primo riquadro, illustrato nell’iconografia che lo ritrae vestito di bianco e affiancato da un demonio (che cercava estenuantemente di tentarlo) fa immediatamente pensare ad una committenza camaldolese, che d’altronde trova corrispondenza nell’ultimo pannello, dove compare la figura di San Benedetto da Norcia, sotto la cui scia è nata la congregazione di Camaldoli. Qui il santo è còlto in una rara iconografia che lo mostra con una scala nella mano destra, richiamo visivo al capitolo VII della Regola dell’Ordine benedettino, che in un passaggio recita: «[…] il corpo e l’anima nostra sono i lati di questa scala, nei quali la divina chiamata inserì diversi gradini di umiltà e di esercitazione spirituale da salire». Ai lati del Cristo nel sepolcro sorretto da angioletti sono poi due santi martiri, Andrea e Caterina d’Alessandria, forse scelti come rappresentanti dell’intitolazione di un altare a loro dedicato all’interno di un complesso monastico.

Le pitture sono realizzate con la tempera all’uovo su di una preparazione applicata a tavole di larice; le decorazioni vegetali, a girali, a candelabra e le teste di cherubini, che vanno a riempire la superficie dei pannelli intorno alle pitture, vennero eseguite mediante la tecnica della pastiglia a mano libera. Tutte queste caratteristiche – compreso l’aspetto formale – identificano una determinata produzione, particolarmente ricca di esemplari ancora esistenti, ricondotta ad artefici greci attivi nella nostra penisola negli ultimi decenni del Cinquecento, al tempo in cui vi soggiornava il celebre Domínikos Theotokópoulos detto El Greco. Fu in concomitanza con l’attuazione dei severi, rigorosi dettami indetti dalla Controriforma che venne probabilmente facilitato l’arruolamento di pittori “ortodossi”, in modo si svincolassero dal manierismo italiano ed eseguissero delle pitture limpide nei significati. Non a caso alcuni aspetti della religione ortodossa vennero integrati con la nuova riforma cattolica (come ad esempio il mantenimento del simbolo niceno-costantinopolitano, ossia il Credo). Dopo il Concilio di Trento il tabernacolo assunse un ruolo fondamentale, poiché su di esso – contenente il Santissimo Sacramento – doveva vertere il fulcro della funzione religiosa.

In seguito agli studi condotti sul Tabernacolo di Bettona, esposto alla mostra trevigiana su El Greco alcuni anni fa (Lovato 2015), è stata avviata una ricerca sistematica su esemplari ad esso affini e presentati in gran numero al I° Convegno Internazionale (settembre 2018), i cui contenuti sono riscontrabili nei relativi atti (Traversi 2019a e 2019b); nell’occasione si invitava a considerare l’esistenza di una bottega del Theotokópoluos in Italia, che sotto la direzione del maestro avrebbe realizzato l’interessante e originale serie di tabernacoli per le regioni contenute all’interno dello Stato della Chiesa (come si evince dalla dislocazione di tali manufatti sul territorio). Fatto confermabile da una iscrizione graffita nella tempera recante la firma «δομίνικος θεοτο.ς» a fianco di un San Luca in un’opera di collezione privata, compagno di un San Marco (entrambi parti di un medesimo tabernacolo smembrato). Queste indicazioni possono dirsi comprovate dal recente ritrovamento, da parte di Lovato, di un esemplare indubitabilmente di mano del Greco e conservato nel museo di Castignano.

Con l’aggiunta del “Tabernacolo di Camaldoli” si arricchiscono dunque i dati a nostra disposizione su questa importante serie di opere, portando con sé alcune singolarità come lo sfondo oro che si staglia dietro ai santi, le minori dimensioni delle specchiature esterne dipinte e la presenza dei santi Romualdo e Benedetto. La qualità pittorica è degna di attenzione (in certi casi superiore rispetto ad altri esemplari della produzione) e alcune figure, come il Sant’Andrea, si ricollegano fortemente ai due santi di collezione privata firmati già menzionati, non solo per i tratti fisionomici, ma anche per l’impostazione formale del personaggio.

Una possibile provenienza dalla provincia romana, oltre ad accordarsi con quanto finora descritto – ricordando oltretutto il soggiorno di Domínikos nell’Urbe per alcuni anni –, risulta particolarmente intrigante al solo pensiero della presenza di un analogo tabernacolo conservato nel Sacro Speco di San Benedetto a Subiaco, a questo punto un rafforzativo nel dimostrare l’interesse dei benedettini verso l’elegante produzione “greca”.

Pubblicazione della scheda:

Francesco Traversi, in Sacra Bellezza, catalogo della mostra (Camaldoli 2021), Bibbiena 2021, n. 3, pp. 122-123

Francesco Traversi

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