Pieve a Socana

Cenni storico-artistici

Manuel Carnicchia

Durante i lavori di restauro del 1966-1972, promossi da don Alfio Scarini, venne alla luce una grande ara sacra lunga 5 metri e larga 4 su cui venivano immolate le vittime sacrificali come capretti, agnellini, cinghiali mentre dei volatili venivano bruciati solo le viscere. L’ara nel corso degli anni ha subito vari interventi di manutenzione nel 1986, 1987, 1992 ed infine nel 2015 con un progetto realizzato dalla Soprintendenza Archeologica della Toscana.

Verso la fine del 1972, grazie agli interventi promossi da Don Alfio Scarini, venne scoperto il primo scalino della gradinata del relativo tempio etrusco che, largo 18 metri e profondo all’incirca 40, è stato datato al V secolo a.C. Nella parte davanti è rimasta una scalinata composta da dodici scalini, in cima ai quali erano presenti robuste colonne di legno di cui rimangono soltanto tre basamenti. Il tempio etrusco era arricchito da pregevoli decorazioni venute in parte alla luce durante gli scavi, come antefisse o testine di terracotta a cui si aggiungono due dischi di pietra iscritti che, secondo recenti indagini, sono ritenuti altari per il sacrificio dedicati ad una divinità solare e ctonia al tempo stesso di nome Manth. Uno degli altari discoidali conservato oggi nel Museo Archeologico Mecenate di Arezzo presenta due testi: uno la cui lettura risulta difficoltosa e l’altro con il solo nome del donatore Arut Kreinie.

Alcune antefisse – la cui funzione era quella di coprire e trattenere i coprigiunti delle tegole del tetto del tempio che era a due spioventi – sono state ritrovate con l’originaria decorazione policroma del V secolo a.C. Oggi nel Museo Archeologico del Casentino a Bibbiena sono visibili alcuni di questi manufatti risalenti al V secolo dette “a testa di Menadi” ovvero le donne seguaci di Dionisio che lo celebravano attraverso la danza e il canto e due “a testa di Minerva” riconducibili all’età ellenistica del tempio ovvero il II secolo a.C.

Il tempio etrusco era dedicato alle divinità etrusche Tinia e Menerva che corrispondono a Giove e Minerva. Dopo la fase etrusca il tempio passò per qualche tempo nelle mani dei Sacerdoti romani, come testimoniano i molti ritrovamenti di recipienti oleari e vinari; mattoni con alcune divinità locali e delle fibule di bambini offerte dalle mamme per richiedere la protezione degli dei sui figli. Secondo alcune ipotesi la parte cilindrica del campanile risalirebbe proprio al periodo romano, adoperata come torre di avvistamento e fortino di difesa oppure come “Statio”; secondo altri studi, invece, l’intero campanile risalirebbe al Medioevo e sarebbe l’esito di più fasi.

I cristiani costruirono sull’antico sito la nuova chiesa, della quale non è rimasta alcuna traccia se non un pavimento poco sopra l’edificio pagano.

Rimangono invece alcune tracce di una chiesa successiva, forse costruita intorno al VI-VII secolo d.C., che era fornita di tre navate e altrettante absidi di cui una centrale maggiore e due laterali minori, che stavano ad affermare la Santissima Trinità che i barbari Ariani invece negavano.

L’interno era diviso da colonne monolitiche di forma cilindrica delle quali si sono conservati quattro basamenti; oltre a questi sono rimasti il primitivo altare e il pavimento di lastre di pietra. La presenza dell’antico battistero ci indica che era una chiesa madre battesimale, che aveva alle sue dipendenze altre trentadue chiese minori.

Durante lo scavo sono affiorate più volte pietre affumicate e pezzi di legno bruciati; questo ha permesso di stabilire che la chiesa fu distrutta da un incendio intorno al principio dell’anno Mille. È così che nel corso dell’XI-XII secolo, si decise di costruire la terza e ultima chiesa, che è quella che ancora oggi vediamo. Della Pieve rimangono poche notizie: è ricordata in una carta del 1072 posseduta dalla badia delle Sante Flora e Lucilla di Arezzo e negli Annales Camaldulenses (anni 1056; 1076; 1084). Secondo il Porcellotti fu tenuta fino al 1400 dai Padri Camaldolesi e poi presa in custodia da un patrono fino al 1820 anno in cui la consegnò al vescovo di Arezzo poiché non poteva sostenere le spese di restauro.

In epoca non ben precisata e per motivi ignoti cadde l’intera facciata e, avendo perso l’antica importanza, la Chiesa fu ricostruita a metà, ovvero più corta, e il materiale d’avanzo fu riutilizzato per la canonica.

Secondo altri studi il campanile apparterrebbe proprio al periodo medievale come riporta per esempio il libro di Maria Bracco Architettura e Scultura Romanica nel Casentino del 1971, secondo la quale la derivazione è senza dubbio ravennate e questo non deve stupire se si tengono conto degli stretti rapporti tra Ravenna e Arezzo grazie alla via Ariminensis che legava direttamente questi due centri. Sempre secondo la stessa studiosa il campanile nel suo primo stadio presenta strette relazioni con quello della pieve di Corsignano (Pienza), databile tra il IX e il X secolo, con il quale condivide le larghe finestre monofore e le lesene che dividono la superficie in otto scomparti caratteristica chiave dei monumenti ravennati dal VI all’VIII secolo e di quelli lombardi del IX e X secolo. Discorso diverso per la parte terminale, esagonale, che trova invece riscontri in alcuni campanili presenti in Toscana come quello di San Giovanni Maggiore in Mugello o quello della pieve di Borgo San Lorenzo del 1263.

La chiesa si presenta oggi con una sola abside al cui interno troviamo un catino in bozze di tufo, dove è posto un bellissimo Crocifisso a grandezza naturale attribuito all’intagliatore Monsù Giacomo Francese.

All’interno ci sono pilastri rettangolari con archi a tutto sesto che danno al tutto slancio e vigoria; da notare che i più piccoli presenti nel presbiterio a forma quadrata accennano a dei capitelli di foglie di castagno e abete. Sul soffitto sono presenti capriate di cui alcune con un’autentica policromia. L’altare moderno è stato ricostruito su quello più antico ancora visibile attraverso un apposito vetro con tutto il suo pavimento originale.

Sulla parete destra del presbiterio è stato collocato un tabernacolo del 1400 ritrovato durante i restauri. Suggestive sono anche le piccole porte rustiche del Seicento, le panche riportate al vecchio stile e soprattutto le grate che mettono in evidenza i basamenti delle colonne.

Il fonte battesimale fu ceduto dalla sorella pieve romanica di San Piero a Gropina, nel cui piedistallo si legge questa iscrizione SALVOS NOS FECIT PER LAVACRUM REGENERATIONIS. La vasca accenna un motivo floreale che simboleggia che come da una parte il fiore sboccia al contatto con la luce, così il cristiano si apre a nuova vita attraverso l’acqua che rigenera. Per finire una piccola curiosità: nel primo pilastro di sinistra è posto uno stemma alquanto particolare, secondo alcuni studiosi sarebbe lo stemma di Leone V, papa dal pontificato brevissimo, il quale, sembra abbia avuto legami con il territorio casentinese e in modo particolare con il piviere di Socana.

Manuel Carnicchia

Diplomatosi presso l’Istituto Buonarroti Arezzo, è attualmente laureando in Storia presso l’Università di Firenze. Il suo ambito di ricerca è la storia antica, medievale e moderna, con particolare attenzione per la storia locale.

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