Angelo di Lorentino al Sasso

Il restauro come strumento di studio

Anna Fienga

La grande tavola, proveniente dalla sacrestia della chiesa di San Domenico ad Arezzo è unanimemente attribuita all’artista aretino Angelo di Lorentino e datata intorno al 1515. Fu Alessandro Del Vita il primo a riconoscere la mano di questo artista in quest’opera, dandone dettagliato rendiconto in un articolo del 1910 e pubblicato in Rassegna d’Arte, dichiarando inoltre erronea l’attribuzione a Domenico Pecori, fino ad allora considerato il suo autore. In quest’occasione infatti, Del Vita ci informa che l’opera si trovava «sopra la porticina dugentesca della sagrestia di San Domenico» e che la vicinanza stilistica a Pietro d’Antonio Dei, meglio conosciuto col nome di Bartolomeo della Gatta, abbia indotto ad ascriverla al Pecori perchè il più conosciuto tra i suoi allievi.

Anche Mario Salmi l’anno seguente si interessò ad Angelo di Lorentino, pubblicando una piccola monografia volta a difendere la dignità di questo «umile pittore dei primi del cinquecento», appena menzionato da Vasari nella Vita di Don Bartolomeo della Gatta come suo allievo e la cui esistenza fu addirittura messa in discussione da Giovanni Battista Cavalcaselle e Joseph Archer Crowe, che lo confusero col padre Lorentino d’Andrea, affrescatore vicino a Piero della Francesca.

Il dibattito che scaturì dalle pubblicazioni di Del Vita e Salmi intorno alla figura dell’artista Bartolomeo della Gatta e dei suoi allievi, Domenico Pecori e Angelo di Lorentino, portò all’organizzazione di un’importante mostra monografica organizzata presso il Palazzo Pretorio di Arezzo – sede dell’attuale Biblioteca Comunale – da parte della Brigata Aretina Amici dei Monumenti, con Commissione Ordinatrice costituita da Mario Salmi, come presidente, Ascanio Aretini e Alessandro Del Vita, in collaborazione con l’Accademia Petrarca, dall’ 1 al 12 ottobre del 1930.

In quest’occasione vennero prese in considerazione non soltanto le opere del maestro Bartolomeo della Gatta, ma anche quelle dei suoi seguaci. Anche l’opera in analisi fu messa in mostra, a dimostrazione dell’influenza che ebbe il Dei sugli artisti aretini a lui successivi. Alle opere di questi fu dedicato lo spazio del corridoio del Palazzo, seppur in riproduzione fotografica, insieme alle opere del maestro che non potevano essere presenti alla mostra.

Il catalogo ci informa infatti che le opere proposte del nostro, tutte presenti ad Arezzo, furono la Madonna col bambino tra i Santi Donato e Domenico, affresco della lunetta del portale della chiesa di San Domenico menzionata da Vasari nella Vita di Bartolomeo della Gatta, l’affresco con la Madonna tra i Santi Benedetto e Bernardo che si trova nella chiesa di San Bernardo, le lunette allora situate nel cortile del Palazzo di Badia con la Madonna con Bambino e un Angelo, il Cristo Risorto e le Sante Flora e Lucilla, ora presso il Museo Statale d’arte Medievale e Moderna di Arezzo dopo lo stacco eseguito da Leonetto Tintori nel 1944 e, come già accennato, la Maddalena tra i due Santi di San Domenico.

La grande tavola è stata recentemente trasferita presso il convento domenicano del Santuario di Santa Maria del Sasso a Bibbiena dalla sacrestia della chiesa di San Domenico, dove si trovava dal 1978 e nel 2019 è stata oggetto da parte di Stefano Garosi, sotto la direzione della Funzionaria della Sovrintendenza Felicia Rotundo, di un importante intervento di restauro a cui partecipò anche la scrivente. Questo ha consentito non solo di ripristinare le condizioni di sicurezza di conservazione dell’opera, ma anche di poter indagare su alcuni aspetti iconografici controversi, ponendo un punto definitivo legato all’identità del santo domenicano raffigurato alla sinistra della Maddalena.

La prima fase dell’intervento ha riguardato il consolidamento della pellicola pittorica e della preparazione, seguito dal risanamento del supporto ligneo, che presentava interventi verosimilmente effettuati nella seconda metà dell’Ottocento e che avevano compromesso l’originaria mobilità delle quattro doghe in legno di pioppo di cui è costituita la tavola. Queste doghe incollate fra di loro nelle commettiture, avevano in origine un’ampia libertà di movimento, poiché le tre traverse mobili in legno di castagno disposte orizzontalmente, inserite in nove guide metalliche, tre per ogni doga, erano mobili e avevano il compito di sostenere tutta la struttura.

Il successivo inserimento di zeppe di legno fra traverse, doghe e guide in occasione dell’intervento ottocentesco, aveva conferito rigidità, impedendo al legno i naturali movimenti.

La mancata elasticità del supporto e i problemi di rigonfiamento causati dall’umidità e da probabili ristagni d’acqua subiti dalla tavola – unitamente alla scarsa qualità del legno utilizzato, che presenta numerosi nodi – avevano quindi portato a importanti imbarcamenti delle doghe e alla conseguente formazione di lesioni che, dal retro, hanno avuto effetti di riverberazione anche sulla pellicola pittorica, particolarmente evidenti nei punti corrispondenti alle commettiture.

Il restauro ottocentesco non ha coinvolto solo il supporto, ma anche il colore, che risultava abraso in più punti in conseguenza di una deplorevole operazione di pulitura, mentre nella parte superiore del dipinto, l’importante abrasione che vedeva coinvolta sia la pellicola pittorica che la preparazione, ha visto un intervento di ritocco molto ampio, che anche dopo l’ultimo restauro continua ad apparire grigio e opaco.

Dopo il consolidamento della preparazione e del colore, la disinfestazione antitarlo, il risanamento del supporto, l’inserimento di un gran numero di tasselli lignei lungo le commettiture e il ripristino della mobilità delle traverse, è stata eseguita un’ importante pulitura di tutto lo spesso strato di materiale eterogeneo che nel tempo si era depositato, tra cui cera di candela, polvere fuligginosa, colle, vernici e ritocchi a olio. Per la rimozione di quest’ultimi in particolare, l’operazione è avvenuta procedendo meccanicamente con l’ausilio del bisturi e del microscopio stereoscopico. Proprio questo strumento ha consentito a chi scrive di poter notare dei particolari solchi sulla superficie della pellicola pittorica e di poter riconoscere nella disposizione di questi la forma di un pugnale, situato proprio sulla spalla del santo domenicano che si trova a sinistra della Maddalena.

Il santo è riportato spesso dalla critica come san Tommaso d’Aquino, che così lo identifica nonostante manchi di recare sul petto il suo tradizionale attributo, il sole raggiato. Il personaggio infatti presenta solo un libro tra le mani, tenuto chiuso e bordato d’oro, e un altro oggetto che, ricoperto dallo strato di sporco presente prima dell’ultimo restauro, risultava così grigio da sembrare una penna d’oca. Sia il libro che la penna sono sovente rappresentati tra le mani di san Tommaso, per questo è verosimile supporre sia questo il motivo che indusse, Salmi e Del Vita in primis, a riconoscere in questa figura il santo teologo Doctor Angelicus.

La scoperta di questo pugnale, apparentemente scomparso per un probabile ripensamento da parte dell’artista, dà conferma a coloro che, come Angelo Tafi, Ubaldo Pasqui e Ugo Viviani, videro in questo santo domenicano proprio il martire san Pietro da Verona, iconograficamente rappresentato offeso dagli strumenti del martirio, il pugnale sulla spalla o la mannaia sul capo, oltre al libro e la palma che in quest’opera, dopo la pulitura, appare verde e non più grigia.

Anche per quanto riguarda la figura di san Domenico, fondatore dell’Ordine, l’aiuto del microscopio ha permesso di notare un ripensamento dell’artista, seppur ininfluente sotto il profilo iconografico, riguardando appunto il giglio che reca tra le mani – simbolo di purezza e attributo proprio del personaggio – in un primo momento pensato in orientamento differente.

La figura di Maria Maddalena stante su un trono architettonico – simile per impostazione e motivi decorativi a quello dell’affresco con Madonna tra i Santi Benedetto e Bernardo nella chiesa di san Bernardo, parimenti opera di Angelo di Lorentino – grazie alla pulitura mostra nuovamente le sue originarie cromie: i lunghi capelli non sono più «neri» come apparivano al Salmi, ma castani, mossi da un afflato di vento e trattenuti da un prezioso drappo dorato che le cinge le spalle. Anche il vasetto col balsamo – molto simile nella forma a quello del vicino affresco con Maria Maddalena di Piero della Francesca che si trova in Duomo –, il verde della veste e il rosso porpora del mantello orlato di ricami d’oro, sono tornati alla loro originaria brillantezza. Parimenti il paesaggio sullo sfondo, liberato dal grigiore dello sporco e dalle vecchie vernici, si mostra con chiarezza a chi lo osserva, che può adesso godere dei suoi paesaggi in lontananza scanditi da rocce, alberi e due piccoli borghi di fantasia.

Questo restauro si è rivelato quindi un preziosissimo strumento di studio che ha consentito non solo di poter chiarire l’aspetto legato alla figura del san Pietro, ma anche di avere contezza di quanto Angelo di Lorentino, di cui conosciamo per lo più opere ad affresco, fosse estremamente abile nella tecnica della pittura a olio, che padroneggia con grande disinvoltura, come dimostra la materia pittorica di quest’opera dopo la fase di pulitura.

Anna Fienga

Dopo la maturità classica si è laureata in Storia dell'arte all'Università degli Studi di Firenze. I suoi interessi di ricerca storico-artistica sono principalmente rivolti al patrimonio artistico aretino e alla scultura ottocentesca.

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