Francesco Boschi

Il "Cristo portacroce" del convento di San Francesco a Firenze

Alessandro Grassi

Non è nota la provenienza originaria di questo intenso dipinto, probabilmente creato per devozione privata e solo in un secondo momento pervenuto ai francescani. Le dimensioni della tela e il taglio ravvicinato dell’immagine, nonché il mesto patetismo ne spira, si adattano a una fruizione meditativa propria del clima spirituale che la generò.

L’opera è infatti da attribuire a Francesco Boschi, membro, col fratello Alfonso, di una famiglia di pittori fiorentini: egli era nipote per parte paterna di Francesco Boschi e per parte materna di Matteo Rosselli, uno dei maggiori artisti del Seicento locale, il cui stile, pacato nelle composizioni eppur morbido negli impasti e nella stesura, segnò la formazione di Francesco (Benassai 2009; Goldenberg Stoppato 2010). Su questa base si innestò un sincero afflato religioso, che spinse il Boschi a farsi sacerdote, posponendo – come notò il biografo Filippo Baldinucci, che ne gli fu intrinseco amico – la carriera artistica alla cura d’anime e alle opere di carità.

Lo stile del Boschi si andò così cristallizzando ed è pertanto piuttosto riconoscibile, anche per il ricorso ai medesimi tipi fisiognomici dai volti allungati e spiritualizzati, solitamente lambiti da un fascio di luce dall’alto che – come nel dipinto in esame – sparge un forte chiarore sulla fronte, sulle palpebre superiori, sul naso e sugli zigomi, e per contro crea ombre solcate sotto le arcate sopracciliari e le narici. Tali caratteristiche si ravvisano nei Dolenti del 1647-48 (desunti da quelli dello zio Rosselli nella compagnia di San Benedetto Bianco a Firenze) che contornavano un crocifisso in cartapesta di Ferdinando Tacca nell’eremo di Montesenario, oggi presso San Cresci a Valcava (G. Serafini, in Il rigore e la grazia 2015, p.168, cat. 28-29; F. Traversi, ivi, p. 174, cat. 30);nel Riposo nella fuga in Egitto con simboli della Passione già in San Benedetto Bianco dov’era solito andare a sermoneggiare, liberamente derivato da un dipinto di Pietro da Cortona (Grassi 2017, p. 311); nell’Andata al Calvario per il duomo di Pietrasanta, del 1660, senza dubbio il suo capolavoro (Benassai 2009, p. 75); negli scomparti ad affresco con storie diSanta Maria Maddalena de’ Pazzi nel fregio della navata dell’omonima chiesa fiorentina, approntato sotto la regia del Volterrano nel 1669, in vista della canonizzazione della monaca (Pacini 1992, pp. 142-143, 147-148). Del resto a queste date, come attesta il Baldinucci, se Francesco doveva «fare alcuna tavola o quadro di devozione, non aveva a vergogna l’attenderne i precetti, e bene spesso i disegni di Baldassarre Volterrano»: ciò spiega, in parte, la costruzione giocata in diagonale, tipica del Franceschini, come anche l’accentuato languore del volto di Gesù.

Il tema del Cristo onerato della croce fu affrontato dal Boschi non solo nella già rammentata pala di Pietrasanta ma anche in un’altra Andata al Calvario (ad oggi non rintracciata) per la cappella della prigione del Bargello, dove egli si recava a confortare i condannati a morte. La nostra immagine tuttavia, limitata al solo busto, si differenzia dalla complessità delle pale d’altare in favore di una situazione più raccolta e concentrata: sembra esservi rapporto con le immagini – quali l’analogo dipinto esposto in mostra – riferibili alle esperienze mistiche di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, che divenivano oggetti di meditazione per le consorelle e i suoi devoti. È quindi da ricordare che il Boschi non solo era devoto della santa ma fu anche confessore di una delle sue figlie spirituali, la mistica Angiola Maria Gini, clarissa nel convento di San Matteo ad Arcetri. Fra le penitenze e gli esercizi che egli mandava per raggiungere la perfezione, troviamo così l’«orazione mentale» da farsi «colla solita fune al collo, e colla corona di spine intesta» (Puliti 1738, p. 83): una mortificazione, questa, in uso anche presso San Benedetto Bianco (Scipioni 2015, p. 40) e che supponiamo praticata dallo stesso Boschi, uomo «mortificatissimo». L’incurvarsi di Gesù, col volto inquadrato dalla corona e dalla corda, doveva dunque unirsi volontariamente alle sue sofferenze, così come Francesco scriveva nel suo diario di «sentire contento» nell’abbracciare la «croce spinosa» che vedeva «apparecchiata» davanti a sé.

Pubblicazione della scheda:

Alessandro Grassi, in Divini Splendori. Tesori e percorsi francescani a Fiesole e La Verna, catalogo della mostra (Fiesole-La Verna 2022), Bibbiena 2022, n. 30, pp. 198-199

Bibliografia di riferimento:

Baldinucci 1845-1847

F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua, Firenze 1681-1728, ed. a cura di F. Ranalli, Firenze 1843-1845, 5 voll.

 

Grassi2017

A.Grassi, Due confraternite laicali nel perimetro di Santa Maria Novella: l’Arcangelo Raffaello e San Benedetto Bianco, in Santa Maria Novella 2017, pp. 303-315

 

SantaMaria Novella 2017

Santa Maria Novella. La basilica e il convento, 3, Dalla ristrutturazione vasariana e granducale ad oggi, a cura di R. Spinelli, Firenze 2017

 

Il rigore e la grazia 2015

Il rigore e la grazia. La Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento Fiorentino, catalogo della mostra (Firenze 2015-2016) a cura di A.Grassi, M. Scipioni, G. Serafini, Livorno 2015

 

Scipioni 2015

M.Scipioni, “Una religione al secolo di uomini spirituali”. Storia, capitoli e pratiche di San Benedetto Bianco, in Il rigore e la grazia 2015, pp.33-49

 

Benassai 2009

S.Benassai, Una traccia per Francesco Boschi, prete e pittore, in «Università degli studi di Firenze. Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo. Annali», n.s., X, 2009, pp. 63-97

 

Goldenberg Stoppato 2010

L. Goldenberg Stoppato, Filippo Baldinucci, the Boschi brothers and the circle of Alessandro Valori, in «Medicea», VII, 2010, pp. 60-85

 

Puliti 1738

[A. Puliti] Vita della serva di Dio suor Maria Angiola Gini monaca professa nel monastero di San Matteo in Arcetri, Firenze 1738

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